domenica 24 marzo 2013

ONIRICI 90 (trascrizioni di sogni)




1.- Marta, itinerari del senso di colpa

Lui, P., andava a trovarla, in una pensione.
Il primo giorno stava bene, Marta, con la sua camicia da notte color crema; rispondeva alle domande, era serena, non sembrava nemmeno ammalata.
P. era contento che lei non soffrisse, o non sembrasse soffrire, lo era al punto che si domandava perché la sua vecchia amica - che egli almeno riteneva tale: ma forse era la madre, una sorella - giacesse lì, in quel letto vicino alla finestra, collocato verso il centro della stanza chiara, quando avrebbe po­tuto fare una vita eguale a quella di tante altre donne: uscire al passeggio, conversare con le amiche...
Era strano, ma per lui quella domanda era come un problema da risolvere logicamente, con la sintassi del suo cervello non più tanto giovanile: aveva ora quarant’anni. E forse la donna, in quella condizione, li esprimeva, fungeva da allegoria.
Quando era per strada quella domanda lo ossessionava: quelle donne, che susci­tano la solidarietà dei passanti, per la loro manifesta età oramai non più verde, erano fortunate, potevano camminare per la strada, osservare le vetrine dei ne­gozi, salutare i conoscenti, ecc.; esse rientravano nella normalità e non erano colpevoli di tutto ciò che potesse loro accadere, questo andava riconosciuto ... ma quanto era idiota il fatto che fossero esse a voler essere compatite e quanto lo erano i passanti che le salutavano, che le compativano.

Il primo giorno - questo P. lo avrebbe ricordato finché fosse vissuto - quella stanza chiara era piena di sole. C’erano altre due donne, silenziose; c’era l’armonia, in quella stanza d’albergo.
Tornò a trovarla più volte, P., e lì trovò un giorno il fratello, che ai piedi di Marta scherzava amabilmente. Non riusciva a capire che razza di rapporto fosse quello suo con il fratello. Era sì il fratello, ma poi? Forse si fingevano fratelli, facevano del tutto per esserlo ... forse un giorno lo sarebbero stati, perché non lo sarebbero mai stati…
Amici non sarebbero mai potuti esserlo, se le parole, le singole parole, avevano significati abissalmente lontani per l’uno e l’altro; e allora?
Suo fratello quel giorno s’intrattenne al capezzale di Marta più a lungo del solito (di solito veniva e andava, correndo dietro ai suoi appuntamenti, una parola che P. non capiva, e dunque odiava) ed era sera, una rossa sera, mite, quando i due si abbrac­ciarono e si separarono, come debbono fare i fratelli. P. notò che da qualche anno, stranamente, abbracciava e baciava molto di più di quanto avesse mai immaginato. Sapeva che era una commedia ma lo faceva egualmente.

Un giorno, era di domenica, un giorno di festa, quella stanza si popolò, erano le visite dei parenti, secondo l’usanza, e dunque al di fuori di ogni coscienza, e gli ap­parve come la sala di un ristorante, gli ricordava meglio una trattoria nella quale andava con i genitori, vicino a Firenze, in una dolcezza straziante delle domeniche d’in­verno, sotto carnevale, con il fiumiciattolo nativo dell’Appennino che s’insinuava in un pioppeto, un ponticello di legno, e i mascheroni di cartapesta seminascosti coi colori in penombra ad una stradina soleggiata, in una rimessa per i carri. Il fratellino, graziosissimo, con gl’istinti di gatto, che dava camminando la mano al padre.
... Aveva gli occhi volti al soffitto, mentre ricordava queste cose, e Marta se ne ac­corse, e lo guardava. Marta adorava, lei che aveva lavorato duro tutte le settimane, andare la domenica al ristorante: “per farsi servire”, diceva.
Quel giorno era bella nel suo abitino semplice e col suo scialle. Il suo letto era un tavolo, e P. notò che in quella stanza vi erano altri due tavoli. In uno si erano sistemate le altre due donne, e giunsero poi, a occupare l’altro, una famiglia intera, genitori e tre figli. Anch’essi non avevano indosso alcun segno di malattia. I figli maschi avevano impeccabili volti estranei, e presto come avviene fra estranei si professarono commensali orgogliosi, amici. La figlia era bellissima, con la pelle bianchissima ma una dolcezza strana negli occhi.
P. amava bere, per qualsiasi motivo, senza una ragione, e quella do­menica, in quel locale, mentre Marta si raccomandava di non “esagerare”, egli bevve molto, in compagnia. L’euforia si tramutò presto in carattere cupo, sospettoso, lunatico. Bastò poco, una parola di troppo, che altrimenti sarebbe stata normalmente tollerata, e scoppiò la lite. P. si alzò ad un certo momento dal suo tavolo e brandendo il coltello del pane, capitato lì non si sa come,  si avventò contro uno dei due fratelli. Era solo, in quegli attimi, e si sentiva il più forte. Quei due sobbalzarono dal tavolo, e fuggi­rono, e dietro di loro il padre. P. si mostrò felice, per questo.
… Sopraggiunse la notte, d’improvviso: il tempo era volato, come un fiore ap­passisce, e P. e il fratello erano tornati nelle loro case, nell’abitato avvolto nel sonno. Marta l’avevano lasciata che si era appena addormentata: doveva essere molto de­bole...

Trascorse non so quanto tempo prima che P. tornasse in quell’albergo, e rimettesse piede nella stanza. La quale quel giorno gli parve piccolissima, opprimente. Gli sembrava di respirare un’aria densa di carbone di locomotiva, o di catrame. Appena entrato, sulla sua sinistra scorse, avvolte nelle coperte, in un lettino singolo, due donne, l’una che teneva il suo braccio destro attorno al collo dell’altra, in segno di conforto.
Fuori l’aria era plumbea. Dopo un po’ P. si accorse che erano loro, madre e figlia, di quella famiglia,  di quella domenica, l’una e l’altra ora strette in un abbraccio, l’una che consolava l’altra, silenziosamente. Il suo sguardo si soffermò sul volto della più giovane, sul suo sorriso dolcissimo, sui suoi occhi cerulei, sul suo volto, ora smagrito, che rendeva più luminosi gli occhi, e la guardò come se guardasse il tempo che non torna.
Marta era nel suo lettino, con la camicia da notte color crema, e ai piedi del letto era seduto il fratello di P., che lo guardava. P. osservò Marta e riconobbe la madre; le parlò, come se nulla fosse, e lei sorrideva e parlava; ma lui, dopo un attimo di distrazione, si accorse che lei non rispondeva alle sue domande: rideva, parlava, e rideva. Il fratello, notando la sua perplessità, disse a P.: «Ma come, non lo sai?, è uscita di senno, saranno tre giorni...; lei non ti capisce, ma è te che pensa sempre, sola com'è». P. abbassò gli occhi, guardò i piedi di Marta... le gambe smagrite e i piedi lunghissimi, e non ebbe più nulla da dire.
Fuori era uscito il sole...



2.- Supplemento alla mia capacità di viaggiare.

Ero su uno di quei treni tipo paesi slavi, come suol dirsi, o forse no... insomma: è per farmi capire… 
L’avevo preso al volo, correndogli per un po’ a fianco, per salire; avevo dovuto scegliere la carrozza, avevo cercato lo sportello giusto per saltar su, tanta era la gente che lo affollava.... carrozze popolarissime...
Poi avevo deciso, ne avevo aperto uno, ero salito disperatamente facendomi spazio a forza tra i passeggeri, dei quali intravvedevo le sagome grigiastre, per il colore dei pantaloni che indossavano e dei gilet, così mesti...
Mi ero accorto ben presto però di una cosa singolare, e con grande sollievo: il treno non era giunto neanche alla stazione successiva, che in séguito ad alcuni spostamenti dei passeggeri, esso si era quasi svuotato, lasciando liberi dei posti a sedere... 
Avevo notato con piacere che erano sedili dignitosi, non orribili come me li ero immaginati; erano rivestiti con una stoffa grigia, sì, ma sembravano posti di prima classe...  Dunque avrei potuto sedermi e leggere il giornale e così feci. 
Trascorsi così, comodamente, una ventina di minuti. Poi a un tratto mi alzai e cominciai a risalire il treno, vagone per vagone, come di solito si fa, per cercare una carrozza fumatori oppure un amico, un volto conosciuto, o per cercare posti; e dopo non molto mi accorsi che il mio slancio nel risalire il treno si era affievolito: avevo cominciato ad andare avanti per inerzia...
Andavo scoprendo pian piano, come fosse una rivelazione, che vi erano nelle vetture di quel treno come volti familiari, almeno alcuni, altri erano simpatici, anche se non li avevo mai visti...
Giunsi quasi distrattamente a una vettura completamente vuota; e di lì intravvidi l’interno di un’altra vettura, dove vi erano dei giochi, un flipper, ecc.
Alcuni parlottavano familiarmente fra loro, in quella vettura; vi entrai, e attaccai bottone con un giovane, sui trentacinque, che indossava una giaccia in pelle marrone; mi ero addossato astrattamente a un flipper, e ne guardavo il piano con indifferenza, quasi non fosse il piano di un flipper. Una gioia, una lietezza inspiegabile mi stava invadendo l’animo, e allora io feci per rivolgere la parola a quel giovane: ma ... «Giochiamo?», mi fece lui, sorridente, precedendomi. Io mi ripresi da quel mio stato di assenza, come di torpore e capii che quel tizio voleva farsi una partita, proprio con me. «Non sa giocare?», mi fece, dopo un attimo di silenzio durante il quale non aveva cessato di osservarmi con fare sorridente e simpatico. «No», risposi dopo avere brevemente esitato... «Ho fatto altri giochi.. non è che non sarei in grado di giocare al flipper... è che non me la sento»; ed era per me più importante, in quel momento, dire che avevo giocato ad altri giochi che non giocare. Nessun pensiero mi aggrediva, ... così sono io... Lui sorridente si avvicinò al flipper e cominciò la sua partita.
… Non lo salutai nemmeno, mi allontanai, perché nel frattempo avevo intravvisto un’altra vettura, o forse era la stessa nella quale mi trovavo, della quale però scoprivo soltanto ora uno spazio, una dimensione che doveva essermi sfuggita... Sembrava una di quelle carrozze deserte che di solito sui nostri treni sono riservate al personale viaggiante... Il treno correva a pieno regime...
In questo spazio nuovo vi era una serie di telefoni, sei, otto, disposti sulle due pareti lunghe... Fu un altro particolare che mi diede conforto, nella mia solitudine...
Passò uno, che forse riconobbi, e vista la mia evidente curiosità incrociandomi mi fece: «Ci si può telefonare, ...ma sì, anche a casa». Che strano!, pensai: telefoni-cabina, di quelli da muro delle stazioni, che vanno a gettone, ma su un treno, e che funzionano, come se tutto fosse normale...
Strumenti vecchi per servizi sofisticati: mai visti... Ma si sa, la tecnica come si cala nelle società... Io non la capisco... Per quel popolo così povero, poi... tutto andava benissimo... bastava accettare...
C’erano solo due persone in quel momento a telefonare, una doveva aver finito perché stava facendo una torsione sul busto girando su sé stessa come per andarsene, e io pensai subito a mia madre... mi avvicinai ad un uno dei telefoni liberi..., poi mi fermai: «Già, ma dove le telefono?».



3.- L'Oceano.

Una terrazza sopra il mare, che io non guardavo come mare, e guardavo invece il bimbo che correva in bicicletta: una terrazza di una Sicilia della mia ultima infanzia ... senza che vi fosse, io pensavo, una ringhiera.
Ora accadeva, non so perché, che io una due volte per l'esattezza mi avvicinassi  al bordo di quella terrazza, così, per curiosità, dopo avere guardato quella superficie incresparsi cupamente qua e là, ... ed essermi detto e domandato: «Ma questo è l'oceano...», pensando distrattamente al pericolo che correva il bimbo, che a tutta velocità mi sfrecciava davanti con la sua bicicletta. E sperando che non lo fosse sino in fondo, oceano.
E mi accadde che per due volte essendomi accostato al punto più stretto della terrazza, nel momento stesso in cui mi dicevo perché non avessero mai pensato l'idea più semplice, e cioè una ringhiera, fossi scivolato lievemente, con lieve paura, rischiando forse di precipitare giù, nel vuoto, e mi fossi altrettanto lievemente appigliato alle mattonelle, tirandomi su, come un ragno.
E così mi accadde di pensare ancora al pericolo che correva quel bimbo, con la sua innocenza. E di pensare che quello potesse essere l'oceano.

Ora dopo quasi un ventennio ho come un sobbalzo, sulla poltrona. È come fossi uscito da un lungo torpore. Sobbalzo e mi dico: eccola, l’immagine, sembra proprio quella terrazza; forse è il tetto di un edificio, e sotto si vede il mare …



4.- L'orso-orsa.

A conclusione di quello che alla fine si sarebbe rivelato un desiderio di essere riamati, reciproco, tra un me, sparso in un'epoca mista, e un orso, saggio, intelligente, di colore marrone, esplose la tragedia: io su una piccola barca, nel fossato pieno d'acqua di un castello, che imploravo; quello, su una grande feritoia del castello, in piedi, che mi dominava e mi faceva sentire a disagio.
In quel momento, all'improvviso, il desiderio balenò, fu chiaro, fu chiara allo stesso tempo la mia disperazione, ed esplose la tragedia, la giusta punizione: partì un colpo di pistola, da lui sparato, presumibilmente, o da qualcuno nascosto che osservava la scena e doveva aver capito.
Il colpo apparentemente andò diritto a penetrare nel mio petto, ma in realtà esso rimbalzò due volte sulla mura del castello prima di centrare il mio petto decretando la fine di una parte di me. (La strana traiettoria divenne visibile dopo, come in rallenty ricostruttivo, con tutto il distacco dell'osservazione di me nei confronti di me stesso, della  mia storia).
Memorabili furono alla fine, al di là di tutto, le parole dell'orso, o dell'orsa che fosse, saggio o saggia: «Noi lo porgiamo ad una donna e nasciamo doveri». Prima di morire, quella parte di me stesso ebbe il diritto di sapere, di aver voluto amare, senza confessarlo, incredulo, l'umanità.
Sesso, e totalità di un giorno di aprile.



5.- Risvegli.

Il rumore, nel buio, di un volo di zanzara, fu per F. come un preludio. Accese il lume del comodino e si levò in piedi ancora in preda al sonno; erano da poco trascorse le due di notte; era di luglio e faceva caldo. F. si diede ad esplorare ogni angolo della stanza, senza vedere alcuna zanzara. Inforcò allora gli occhiali, ritentò....: nulla. Tornò a coricarsi, si tolse gli occhiali, spense il lume e aspettò... Nulla.
Erano passati pochi minuti quando udì un rumore. Incuriosito e sempre più in preda al sonno, fece per accendere nuovamente il lume, ma quello non si accendeva. Forse era fulminato, pensò. Allora cercò con la punta delle dita l’accendisigari che portava sempre con sé, e che prima di coricarsi usava lasciare sul comodino; ma quello non si accese. Si alzò, ed andò a tentoni verso l’interruttore del lampadario, fece per accendere... nulla. Anche quello sembrava fulminato. Allora raggiunse la cucina, cercò la lampada da campeggio che teneva lì, per consuetudine, e poi, per maggiore sicurezza, frugando nei cassetti, prese una candela. Tornò nella stanza e fece per accendere la lampada... nulla, neanche quella funzionava. Tentò di accendere la candela con l’accendisigari, e la cosa funzionò ma la candela arse solo per un attimo, una fiammella esile, prima di spegnersi, come se qualcuno vi avesse soffiato sopra. Allora capì, e avvertì la presenza.
Era lucidissimo, ma prese a sudar freddo. «Non ci sono dubbi, pensò, è Lui». Si rialzò, e si diede a percorrere come in pellegrinaggio tutta la stanza, tremando e segnandosi incessantemente con la croce... Tutto il suo robusto ateismo si era dissolto in un attimo. «Esistono situazioni che disintegrano le verità più coriacee, più meditate», pensò fra sé...
Era notte fonda. Quando si ridestò aveva ancora tutta la sua lucidità. Con spirito scientifico ritentò di accendere il lume del comodino... si accendeva; provò ad accendere la lampada da campeggio... si accendeva; si alzò e provò con l’interruttore del lampadario, e subito una luce potente inondò la stanza...



6.- Frammento di una mia passeggiata.

Iniziò tutto con grandi colonne bianche. Templi diruti che io guardavo... che non tardai ad avere al mio fianco...
Camminavo, e scendevo, tenendo per mano come avviene abitudinariamente il mio bambino, lungo il declivio di un’altura; che andava a chiudere, in basso, come a tenaglia, lasciando intravvedere una insenatura marina, di acque .... tranquille e apparentemente disabitate...
Mi avvicinavo a quelle acque con sensi di festa; e qui il mio viaggio s’interrompe un po’; subentra il ricordo di un cadere, o di uno scivolare senza fine, di un andare a fondo - forse nelle acque, non così innocenti...
E poi ricordo altra terra, senza vegetazione: un continuare a camminare sulla terra... Il mio animo, dopo un tempo, breve o lungo non so, era risollevato. Forse io e il piccolo, che se ne stava sempre in silenzio, avevamo scampato un pericolo... Ma non eravamo spaventati. Entrammo a un certo punto in una grande sala; che si presentò ai miei occhi ricordandomi la navata di una basilica.
Era un’unica navata: forse le mie cognizioni in questo mi confortavano?; il pavimento però aveva una particolarità che m’incuriosì molto: era rosso e come gelatinoso.
Non capii finché non entrammo: io tenendo sempre per mano quel piccino che era assai provato per il lungo camminare.
Distante da me vidi l’amico G., con la sua barba rossa, il quale scalpicciava, come me che vi ero entrato, in un fondo di dieci centimetri di profondità. Mentre provavo ancora a capire, lui, scalpicciando in quel fondo rosso e gelatinoso, mentre era chino a cercare qualcosa, non disse alcun «Cerco qualcosa», né alcun «Sai che cosa cerco?». Disse invece, come introducendosi nella mia curiosità e proprio quando io mi accorsi di una regolarità di disegni, come di mattonelle, sotto quella superficie gelatinosa: «Ogni mattonella ce n’è una...».
In quel medesimo istante la mia curiosità mi aveva indotto a credere, non so come, che quelle fossero tombe d’imperatori... E tutto in quel momento mi sembrò evidente... Provai a rivolgergli la parola, ma lui non mi udiva: a chi aveva parlato, allora, un attimo prima?  Certo io avevo raccolto le sue parole come fossero rivolte a me, e di fronte a questa verità cui ero giunto desistei dal parlargli. Cercai anch’io, chino in quella singolare palude rossiccia e notai che ogni mattonella recava una scritta, come un’epigrafe.

G. continuava a cercare con l’impegno un po’ goffo di un sessantenne dall’animo rimasto fanciullo. Forse la madre, forse un’amica scomparsa... Già: una donna, comunque…
Si avvicinava sempre di più a me... ora mi era vicinissimo ed io sentivo che quella immagine sarebbe presto svanita. Oramai era un vecchio fumo rossastro.



7.- Il ponte.

P. come al solito quel mattino non riusciva a capire. Anche quella volta avrebbe dovuto toccare con mano, per capire; questo però non so a che cosa sarebbe valso...
Seguitava a percorrere il ponte sul Fiume approssimandosi alla fine, laddove aveva scorto un capannello di gente. Man mano che avanzava il suo sguardo era sempre più attratto da quel gruppetto di persone, affaccendate in non so quale attività. Fu colpito dall’anonimato di quella gente, remota come può esserlo un fratello remoto; forse una squadra di operai; più probabile che si trattasse di un gruppo di cittadini, immersi in un clima rarefatto ed incomprensibile di complicità.
P. sentì a un tratto che due di essi dicevano, volgendosi a lui con voce sostenuta, qualcosa come: «Attenzione!, si è rotto, sta cedendo!»  Si fermò a pochi passi di distanza da loro. Aveva sentito chiaramente quelle parole  ma non capiva, continuava a non capire: così era la sua natura. ... Quando all’improvviso si sentì immerso fra quei corpi e si accorse che il ponte aveva ceduto. Lui era lì sospeso, forse su un cavo metallico, forse su una grossa corda; ed era che quel ponte non era fatto di cemento, come aveva creduto, ma d’un tratto si rivelò fatto di ampie tavole di legno. Un ponte antico forse... Era lì, sospeso su quel cavo, che era tutto ciò che sorreggeva quel ponte e lo teneva unito all’altra sponda del fiume. Sotto aveva il vuoto. Teneva le mani ben strette attorno a una fune che scorreva parallela al cavo, e lo faceva con grande naturalezza, senza fatica. Mise molta attenzione nel percorrere l’ultimo tratto del ponte, fece con calma. Gli operai nel frattempo erano spariti, o forse era lui che non li considerava degni di attenzione. «Mah! - fece - saranno tornati a casa, o saranno in qualche bar a concludere la loro giornata...». Era come non fossero mai esistiti... Giunse alla fine sull’altra sponda. Era in salvo, ma questa sua esperienza non lo aveva minimamente scosso: tutto insomma era normale.
Quel giorno tutti i ponti sul Fiume probabilmente stavano per cedere; ma P. non capiva perché questo potesse accadere: il fiume non era in piena, quel giorno, e non lo era mai stato... Lui comunque non rischiava nulla.

D’improvviso si ritrovò dentro una stanza, non molto ampia, di una luminosità media, e sentì nuovamente accanto a sé la presenza di quel gruppetto di operai. Ora non sembravano più così affaccendati; anzi non agivano minimamente.
In mezzo a  loro scorse una donna, che lui conosceva bene; una donna superba, piena di sé. La pelle bianca, i capelli rossicci, piuttosto magra. Aveva in mano un martello, da carpentiere, era salita su una scala, e lavorava a riparare qualcosa con quegli uomini intenti a seguire ogni suo gesto.
P. riconobbe l’amica, T., e notò immediatamente il suo volto contrariato.  Sotto il soffitto pendeva proprio quel cavo metallico, del ponte, sul quale P. aveva camminato poco prima per mettersi in salvo. Le si avvicinò, non le chiese nulla; sentì solamente che lei diceva: «Ma guarda un po’ se io debbo riparare tutti i ponti». P. ne fu piacevolmente incuriosito e si fermò a guardare, come fosse uno di quegli operai. Sentì allora di non avere mai nutrito veri sentimenti di amicizia per T. Continuò a guardarla, umiliata com’era da quel lavorare cui era costretta dalla presenza forse di quegli operai, il lavoro umile, per cui lei non era tagliata.  P. in fondo sentiva nascere nel cuore un senso di compiacimento...



8.- L’esplosione.

Aveva amato sempre il suo bambino, di otto anni, un bel bambino; molto più della sua autovettura, luminosissima e verde, che pure amava tantissimo, e della quale spesso si era ripetuto: «Questa è come una compagna fedele, che non mi chiede sesso e non mi giudica. So che posso fidarmi di lei».
Ma il suo bambino aveva qualcosa in più: si muoveva, lui, padre amorevole, lo baciava teneramente sulle guance, gli stringeva la mano.
... Un giorno lo vide esplodere, come esplode una polveriera. E scomparire, non essere, per sempre. Stava passeggiando con lui, tenendolo per mano; poi a un tratto gli aveva detto: «Marco, aspetta che ...», senza continuare; si era allontanato per un attimo; stava tornando dal suo piccolo, per riprendere a passeggiare, quando assistette impotente all’esplosione.
La giornata era umida: per strada non passava nessuno, non si udivano neanche i rumori delle auto; era il primo freddo invernale; già ma dove? Non sapeva più che cosa pensare. Un’altra dimensione lo prese violentemente, quell’altra dimensione che dev’esserci, comunque. Era convinto di averlo immaginato, il fatto. «Noi tutti stiamo esplodendo da sempre», pensò. «Tutto avviene come in una esplosione incessante».
Pensava alle stelle, al sole, alle vecchie nebulose, all’origine e alle fiabe della scienza e alla dispersione di tutto. Ora era convinto di averlo immaginato, quel piccolo... E proseguì la sua passeggiata.



9.- La terrazza.

La finestra dava su un complesso di case grigie.... Avevamo una grande terrazza, mattonelle a non finire, non belle, una doppia vetrata, umile, nulla di lussuoso, un grande occhio, su una fetta di cielo, più in là una collina o che cosa...
Sulla sinistra ricordo che la sera, quando tramontava, si accendeva  ed andava accentuandosi nel suo rossastro pallido la luce di una finestra di un’abitazione anch’essa civile, della stessa natura della mia; e quella grande terrazza era incredibilmente romana, di una Roma anni cinquanta, consolatoria per la mente...
La vetrata era quella della camera da letto, coniugale, non molto spaziosa, aperta al passaggio dei figli, incredibilmente aperta... con qualcosa di selvaggio dentro.
Più in qua, vicino al mio cuore, c’era come un fuoco, ed era la cucina, dove spesso si cenava in modo chiassoso, con i ragazzi che andavano e venivano, come frequentatori di uno snack-bar, con grande disinvoltura...
C’erano poi le camerette dei ragazzi, fortemente desiderate...

Quella sera avvennero le medesime cose: cenammo; mia moglie era del suo solito biondo, lievemente sfiorita con gli anni ma la pelle bianchissima, con le sue parole e i suoi silenzi costitutivi, come avevo imparato a vedere col tempo.
Così era la normalità: A., il figlio più piccolo, che ogni tanto correva da noi a prendere una fetta di formaggio, un bicchiere con qualcosa da bere, un frutto, e poi si rintanava nella sua cameretta, e C., la grande, che c’investiva con i suoi umori e la sua pubertà fastidiosa, fatta d’intrighi e sospetti; per correre d’improvviso via lontana, ad ascoltare la sua radio, canzoni e commercio canoro, a quintali ....
Quella era una serata come tante, o almeno così dicevano le apparenze; ma notai nell’aria una sottile inquietudine. D’un tratto udimmo un rumore, esterno; io andai a quella vetrata, della nostra camera da letto, guardai fuori e vidi che tutto era normale: il cielo era terso e tramontava; quella finestra, nostra compagna, era accesa e rossastra, come al solito, ed io sentivo che quelle persiane di quella finestra non potevano essere chiuse...non dipendeva dalla volontà umana...

C’era molta vitalità, in casa mia, come al solito, e le ore  trascorrevano...tornai dunque nella cucina...tutto era normale, i ragazzi che vivevano immersi nella loro sera, ma quella vitalità ora m’insospettiva, si protraeva troppo a lungo: anche questo - pensavo - non dipendeva dalla volontà umana.
Provai improvvisamente a gridare qualcosa come «Ragazzi, per favore, fate silenzio!», e ancora: «Guardate che si è fatto tardi; cosa si fa questa sera, non si va a dormire?!». Era sopraggiunta la notte...
Ricordo che quell’ultima cosa l’avevo gridata quasi distrattamente e senza credere a quello che stavo dicendo: in realtà tutto sembrava trascorrere nella normalità....
Ma essi continuavano a celebrare la loro sera, come un infinito, come se non avessero udito la mia voce, ed io mi sentii d’un tratto come chiamato fuori, ad interpretare tutto quello che mi accadeva come paesaggio: io ero il semplice spettatore...
Mi accorsi però che si era fatto tardi, prima non ero affatto convinto.... era veramente notte, e la scena si protraeva: il mondo era come fermo alla sera imprigionata in quella sera...

Cominciavo, non so perché, ad avere paura; mi levai dalla sedia ed andai verso quella vetrata, come per un presentimento: la finestra accesa era sempre lì, accesa.....
Il cielo non so perché conservava sempre un certo lieve chiarore, dietro le colline.... gridai: «Ragazzi, voi giocate, ed è l’alba». Guardai l’orologio che avevo al polso e lessi le quattro...
La terrazza era avvolta nella penombra, ma ad un tratto notai due sagome, due ombre... guardai meglio: erano due piccole sagome, due bambini, che venivano verso la vetrata dietro la quale mi trovavo; levai lo sguardo verso quella finestra accesa e vidi che vi stava, affacciata, una donna, e sentii che si raccomandava con quei due piccini dicendo loro di non correre, di non fare chiasso, di non disturbare, ecc. Un rito si era improvvisamente innestato in un altro.
Io, messo lì, non avevo sonno, mi volsi a guardare il letto matrimoniale, integro, ma mi domandavo come avrei fatto ad affrontare il mondo, senza avere chiuso occhio... Non mi sentivo affatto stanco, ma questo non bastava.
Rimproveravo in cuor mio i miei figli... E quei due mi erano entrati in casa, senza che io avessi fatto nulla per impedirlo... E nessuno, tranne me, si era accorto di nulla.
… Si era levato il sole, e quel giorno ne ero infastidito.



10.- L’infanzia e la ripetizione.

P. sentiva che stava cambiando. Era giorno ormai, e a lui era consegnata la sensazione che il suo corpo s’immergesse in un sistema di palazzi.
Gli sembravano - come dire? - giocattoli e armi, oppure l’infanzia e la ripetizione, lui piccino che rifiutava con tutte le sue forze il cibo o sentiva di avere attorno a sé animali abitudinari. ... Era la città. Ma non era la città nella quale stava giungendo. In quel mentre s’interrogava. L’aria si faceva domanda, e un treno: quello sul quale viaggiava, che era il non suo,  s’immergeva fra case-cose, queste sì molto sue. P. sentiva che stava cambiando. Come stavano trasformandosi le sue cose...-
Aveva dormito poco, in treno, quella notte. Era il tempo delle bombe sui treni, e lui ne era terrorizzato. Salito sulla vettura, la sera prima, pochi minuti prima della partenza, si era imbattuto nell’addetto, aveva guadagnato il suo posto-letto, si era spogliato, aveva fumato una sigaretta e si era coricato.
Era rimasto come a vegliare su di sé fino alle due; poi sicuramente aveva  preso sonno, ma doveva essersi trattato di un sonno leggero: ogni tanto apriva gli occhi. Udiva rumore di passi, in alcune stazioni; altre erano avvolte completamente nel silenzio. Finché era rimasto sveglio non aveva saputo che cosa pensare.  Il problema, evidentemente, era la sua identità, e così giocava d’immaginazione: pensava alla città che lo avrebbe accolto, ai volti delle persone che avrebbe incontrate...
Levatosi, alle sette, si era incamminato lungo il corridoio della vettura, per rintracciare l’omino della sera prima, l’addetto, ed aveva chiesto ed ottenuto un caffè. Poi era tornato sui suoi passi e si era messo a fissare la campagna, mentre il treno faceva un gran correre deciso  verso la sua destinazione: già, la decisione in quella corsa non gli dispiaceva.
Guardava fuori. Vedeva case gialle, rade nella campagna, estranee, ma quella campagna ed il rilievo di qualche collina gli apparivano stranamente familiari. Popolazioni - pensava - immerse nella loro umanità, gente operosa come la mia gente... Erano queste le cose che si offrivano alla prima luce del sole. Ma l’idea di un popolo operoso non lo confortava affatto.  Tutto gli sembrava fortemente mortale.

Finalmente la città. Il corpo immerso in un sistema  di palazzi. L’infanzia e la ripetizione. Ma quale città era mai quella? Il treno si fermò in una grande stazione bigia. S’era d’inverno..



11.- La caduta dal ponte.

Il tonfo fu bestiale: quattro persone che percorrevano in autovettura ad una velocità di oltre duecento chilometri orari un’autostrada, piovuti giù da un ponte, nel fiume, con uno strapiombo di quasi cento metri. Era una giornata bellissima, la luminosità del sole era come un dono imbarazzante.

Erano vissuti per lo più in un giardino, nel tepore di un sole clemente, due genitori e la figlia e il ragazzo, che l’amava. C’erano alberi di mandarini e limoni; si poteva correre, nei vialetti, per nascondersi, immaginando chissà quali solitudini di bosco.

L’autovettura era lucente, e confortava come l’abbraccio di una madre e S., quarantenne, l’amava: non ne aveva mai posseduta una così.. gli aveva consentito di vivere decorosamente per almeno cinque anni...

Non so se fu una decisione di S..... non era possibile, ma a un tratto sembrò tutto voluto, programmato... Il destino sembrò farsi da parte.
I quattro stavano precipitando, ma la loro sofferenza non andava al di là di una semplice malinconia. Pensavano solo a come trascorrere quei secondi che li separavano dall’enorme tonfo nell’acqua.

S. disse ai due innamorati solo poche parole: «Abbracciatevi, che stiamo per... e fra un po’ ci annulleremo». E quei due, forse senza capire, si strinsero fortemente corpo a corpo, quasi obbedendo.

Due ragazzi del luogo erano già spettatori, e chissà cosa avrebbero visto, accompagnando con lo sguardo - quasi questo fosse determinante - quei quattro personaggi incredibili nella caduta. 

... Allora fu profondissima e forte - lo ricordo - la percezione del Tempo... Già: spazio e tempo... 



12.- Il pigiama.

Entrammo in quello che presumo fosse il solito locale, visto che non ricordo, in merito, di avere provate sensazioni particolari. Scegliemmo il tavolo e ci sedemmo, G. ed io, doveva essere il nostro consueto sabato sera, per bere qualcosa. Ordinammo...
Oramai stavamo conversando come al solito, come fanno tutti, lui di fronte a me; io, serio, con il busto proteso in avanti, i gomiti sul tavolo, fissando negli occhi G.; quando mi accorsi, d’improvviso, di essere osservato, con curiosità, quasi con ironia.

Il lieve fastidio che provai a quel sentirmi come osservato non m’impedì di continuare nella conversazione ancora per un po’; ma ad un tratto alzai la testa e mi guardai attorno ed ebbi la conferma: vidi che tutti mi stavano osservando seri, in silenzio. Cercai lì per lì di comprendere le ragioni di tutta quella curiosità ... nulla. Ripresi a parlare con G.
… Poi mi venne istintivo guardarmi la spalla sinistra così, come ci si guarda, e allora mi accorsi che avevo indosso il mio adorato pigiama, caldo, chiaro, di lana, con lievi righe variopinte, abbondante, di quelli che indossavano i nostri nonni, per intenderci, di quelli che da bambino credevo rendessero somiglianti ai carcerati.
Fino a che punto, pensai fra me e me mentre guardavo G. e le sorridevo, ci si può affezionare al proprio pigiama! Fino al punto da portarlo con sé, come abito, nei propri sogni.



13.-Il canto del gallo.

Ci trovammo nell’umido freddo invernale, nei pressi della mia vecchia università. In un teatrale che riconoscevo; senza alcun sollievo per la mente ...
Non so perché proprio lì, nelle stradine circostanti quell’università, di quella grande città; vicino ad un bar d’angolo, come ve ne sono molti; dove andavo a mangiare i miei panini imbottiti da studente, a bere la mia birra; e vicino al giornalaio dell’incrocio, la grande illustrazione, che per me studente era sembrato detenere chissà quali tesori e tesoretti. Erano i luoghi della mia antica giovanile religiosità. Molto umana..

La sera: doveva essere da poco scesa, perché io non avevo memoria chiara di un tramonto, ma come qualcosa di ostinato nello stomaco, che non mi abbandonava; ed era umido; il giornalaio era chiuso; le bancarelle dei libri economici avevano chiuso, ed erano scheletri, che si sarebbero lasciati volentieri avvolgere in silenziose nebbie di stagione...
Io non ero più studente, da tempo: questo era il mio sentire fondamentale, e per i miei occhi le cose religiose erano tristi, poetiche, un crepuscolo senza fine né volto. Spoglio dei suoi possibili idoli, come gli alberi, messi a nudo dal cospirare delle stagioni...

Lei era piccola, davvero fanciulla; si era presentata incredibilmente, improvvisa; con il suo zainetto di bambina, i suoi jeans, i capelli trascurati, gli occhialetti... con un sorriso, sospeso, monacale. Non sapevo che cosa dire, lì per lì ... pensare, a che cosa (?)..., per giustificare quello che stava accadendo... Forse forse la ragione era nella frattura di un tutto, così ben definito quanto lo possono essere spesso le cose idiote, che tanto sorreggono l’umanità... Forse... quel suo avermi sempre guardato con delicatezza innaturale, nella distanza degli anni: lei sedicenne o poco più, liceale, ed io invece pressoché cinquantenne...

Mah!,... nulla poteva essere nato all’improvviso, e poi: tutto è incredibilmente cognitivo, mi borbottavo mentalmente; e la guardavo sorridere: un viso piccolo, due occhi spaziosi, minuta la bocca, piccola di statura, sensibilissima che mi guardava, non bella, negli occhi come per tirarmi a sé.
Iniziammo a parlare, camminando. E tutto fluiva doverosamente: io che non ero lì, vicino l’università; Lei che non vi era ancora giunta, secondo le presunzioni della mia ragione, a causa dell’età e dell’ordine di studi. ...

Ricordo che parlavamo, e fummo subito nel cuore del dialogo; come fosse un discorso ripreso e cioè da sempre iniziato...
Sapevo, mentre parlavo, quanto erudizione e senso in Lei fossero confusi, intimamente, e forse era per questo che ci si poteva parlare, con perfetta linearità e continuità...
Erudizione e sesso, pensai... Lei non se ne sarebbe mai potuta liberare, era una piccola prigioniera... Non che fosse una folle, no, solo: erudizione e sesso... forse stava sulla navicella dei folli, senza averne grandi colpe.
Tutto questo spiegava quel nostro camminare e parlare...

Ricordo che non entrammo in quel bar d’angolo, così fiabesco e infantile, una casina avvolta nel suo stato notturno; no: lo avevamo rifiutato subito; ed invece del bar, divenne nostra meta un’officina di meccanico; che a quell’ora - erano oramai superate le otto - era ancora aperta: forse qualche lavoretto da ultimare ad ogni costo; forse il proprietario di un’autovettura (che) sarebbe passato la sera stessa, per ritirarla, forse quel proprietario ne aveva una urgenza drammatica...
Quel meccanico aveva davvero un problema, interpretativo, su quel motore... pensai di capire...

L’officina constava di due vani, come spesso si confà a un’officina meccanica.. cui si accedeva grazie a due saracinesche; ma riuniti in uno. Fra i due vani, intercomunicanti, il passaggio era interrotto da un pilastro in cemento.
Noi entravamo ed uscivamo da quell’officina; girando attorno a quel pilastro, e parlavamo, io continuando a guardarla nel visino; Lei continuando a dire cose razionali e femminili; con il meccanico che si avvicinava ogni tanto, che andava dal pilastro all’autovettura problematica e viceversa...

Entravamo e uscivamo dal meccanico:... entravamo e uscivamo... giravamo attorno a quel pilastro, dialogando.
A un tratto Lei si fermò e disse: «tu credi di avere la soluzione, o non?». E io capii immediatamente: soluzione stava per soluzione al problema di quel meccanico, mentre era quasi la mezzanotte, e quell’uomo si avvicinava ancora una volta, sempre noncurante di noi, come immesso in una vertigine con altri personaggi; ma chiuso in una sua egoità, che aveva rinunciato al tempo. Si avvicinava dunque, incrociandoci per l’ennesima volta... incrociando almeno il nostro sguardo...
«Non so... forse...»; risposi; ma sentivo di non avere risposte, che non fossero il solito parlare ipocrita...

Già: non avevo risposta, alle domande, a quelle di Lei, a quelle del meccanico, che si allontanò tenendo fra le mani una busta in cellophane, trasparente e che lasciava trasparire qualcosa, una polvere sembrava, di color bianco; il cui contenuto mi sembrava ovvio, ma che in realtà ignoravo...
Forse che quella macchina era inguaribile?

Già: il mio essere (come) antico; la mia antica religiosità, che però era valsa a tenermi giunto alle cose... Ero entrato troppo dentro le cose? fino a perdere le mie narici ogni odore teleologico?
Mi accorgevo ora che non avevo mai perso la mia vera condizione: di innamorarmi, parlando, e di credere, e, ancora, di non avere comunque risposte. Nel frattempo il meccanico era svanito, neanche più negli occhi la sua schiena azzurra; svanite le domande; ferma, impalata Lei, la piccola, di fronte a me, a interrogarmi con gli occhi, attraverso gli occhialini...

... Mi destò lacerante il canto del gallo, una piccola macchina, un dispositivo, nel quale forse potevo navigare, con il mio solo credere ...



14.- Pallio

Questa notte mi è apparsa in sogno una parola, PALLIO: il contesto era un gruppo di persone (le rivedo ancora adesso) coappartenenti in qualche modo a questa parola; co-riferentisi ad essa, in un gioco enigmistico (non necessario alla sola enigmistica, ma entrante nella enigmistica della vita).  
Si domandavano innanzitutto: che cosa significa pallione?
Io dissi: sarà un grande pallio.
Già, mi rispondevano con un sorrisino, ma che cosa significa pallio?

Perché mi è venuta in sogno questa parola, fra milioni di altre?
Parola che non frequento, che certo debbo avere sentita una, due, forse 10 volte, ma sempre distrattamente?



15.- Bianco accecante

La strada, che percorrevo di solito e che credevo di cono­scere, era scomparsa; ma io la percorrevo egualmente; di tanto in tanto c’erano lampi violentissimi di bianco, che ne il­luminavano alcuni scorci, e per questo la riconoscevo; ma non per questo mi era familiare. 
La percorrevo invece corazzato dalla velo­cità di una potente autovettura, perché la conoscevo, o forse per la ragione opposta.
A un tratto subentrò in me la coscienza, come spesso mi accade, e allora iniziai a cercare un colpevole di tutto questo: un tizio, una voce, mi disse che era così, che lui non lo sapeva, ma che tutto era iniziato da quando aveva cominciato a vedere una risma di fogli di un bianco brillantissimo latteo, accecante, innaturale. E io guardavo quei fogli e continuavo nel mio percorso....
Al mio fianco di tanto in tanto ora avevo tetti rossi, di tanto in tanto tracce di un declivio collinare...



16.- L’impossibilità di ritornare

Mi trovavo a viaggiare su un treno, in compagnia di persone con cui parlavo di lavoro d'ufficio. Si facevano insomma le solite cose: per questo mi resi conto di dove mi trovavo. Poi d'improvviso quel treno si arrestò in una stazione, non ricordo quale ma ovviamente questo non aveva importanza... 
So che pioveva ed era quasi notte... Io non comprendendo né il perché di quella fermata né dove potessi trovarmi, feci per scendere dal treno e alla fine sentendo che il tempo passava mi decisi a farlo, quasi il treno me lo chiedesse... 
Non so se fosse città o cittadina; so che s'era fatto tardi e che vedevo solo qualche via delimitata da muri di cinta di ville... Cercai allora un mezzo pubblico, non so se per tornare a casa o se per tornare al treno o semplicemente per fuggire... Ne passò uno e lo presi, con non molta convinzione e non avendo nemmeno il biglietto; ma perché ne fui sorpreso. 
Il mezzo percorse alcune strade e quando mi accorsi che si stava allontanando dalla stazione ferroviaria e se ne andava in una periferia sconosciuta fui preso dall'ansia; allora prenotai per la fermata e scesi. Ma dove mi aveva portato? Ora - rimuginai fra me e me - la storia si sarebbe ripetuta: ancora una volta avrei dovuto studiare un mezzo, ricostruire un  percorso, per tornare al mio punto di partenza... 

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