1.- Marta, itinerari del senso di
colpa
Lui, P., andava a trovarla, in una pensione.
Il primo giorno stava bene, Marta, con la sua camicia da
notte color crema; rispondeva alle domande, era serena, non sembrava nemmeno
ammalata.
P. era contento che lei non soffrisse, o non sembrasse
soffrire, lo era al punto che si domandava perché la sua vecchia amica - che
egli almeno riteneva tale: ma forse era la madre, una sorella - giacesse lì, in
quel letto vicino alla finestra, collocato verso il centro della stanza chiara,
quando avrebbe potuto fare una vita eguale a quella di tante altre donne:
uscire al passeggio, conversare con le amiche...
Era strano, ma per lui quella domanda era come un problema
da risolvere logicamente, con la sintassi del suo cervello non più tanto
giovanile: aveva ora quarant’anni. E forse la donna, in quella condizione, li esprimeva,
fungeva da allegoria.
Quando era per strada quella domanda lo ossessionava: quelle
donne, che suscitano la solidarietà dei passanti, per la loro manifesta età
oramai non più verde, erano fortunate, potevano camminare per la strada,
osservare le vetrine dei negozi, salutare i conoscenti, ecc.; esse rientravano
nella normalità e non erano colpevoli di tutto ciò che potesse loro accadere,
questo andava riconosciuto ... ma quanto era idiota il fatto che fossero esse a
voler essere compatite e quanto lo erano i passanti che le salutavano, che le
compativano.
Il primo giorno - questo P. lo avrebbe ricordato finché
fosse vissuto - quella stanza chiara era piena di sole. C’erano altre due
donne, silenziose; c’era l’armonia, in quella stanza d’albergo.
Tornò a trovarla più volte, P., e lì trovò un giorno il
fratello, che ai piedi di Marta scherzava amabilmente. Non riusciva a capire
che razza di rapporto fosse quello suo con il fratello. Era sì il fratello, ma
poi? Forse si fingevano fratelli, facevano del tutto per esserlo ... forse un
giorno lo sarebbero stati, perché non lo sarebbero mai stati…
Amici non sarebbero mai potuti esserlo, se le parole, le
singole parole, avevano significati abissalmente lontani per l’uno e l’altro; e
allora?
Suo fratello quel giorno s’intrattenne al capezzale di Marta
più a lungo del solito (di solito veniva e andava, correndo dietro ai suoi
appuntamenti, una parola che P. non capiva, e dunque odiava) ed era sera, una
rossa sera, mite, quando i due si abbracciarono e si separarono, come debbono
fare i fratelli. P. notò che da qualche anno, stranamente, abbracciava e baciava
molto di più di quanto avesse mai immaginato. Sapeva che era una commedia ma lo
faceva egualmente.
Un giorno, era di domenica, un giorno di festa, quella
stanza si popolò, erano le visite dei parenti, secondo l’usanza, e dunque al di
fuori di ogni coscienza, e gli apparve come la sala di un ristorante, gli
ricordava meglio una trattoria nella quale andava con i genitori, vicino a
Firenze, in una dolcezza straziante delle domeniche d’inverno, sotto
carnevale, con il fiumiciattolo nativo dell’Appennino che s’insinuava in un
pioppeto, un ponticello di legno, e i mascheroni di cartapesta seminascosti coi
colori in penombra ad una stradina soleggiata, in una rimessa per i carri. Il
fratellino, graziosissimo, con gl’istinti di gatto, che dava camminando la mano
al padre.
... Aveva gli occhi volti al soffitto, mentre ricordava
queste cose, e Marta se ne accorse, e lo guardava. Marta adorava, lei che
aveva lavorato duro tutte le settimane, andare la domenica al ristorante: “per
farsi servire”, diceva.
Quel giorno era bella nel suo abitino semplice e col suo
scialle. Il suo letto era un tavolo, e P. notò che in quella stanza vi erano
altri due tavoli. In uno si erano sistemate le altre due donne, e giunsero poi,
a occupare l’altro, una famiglia intera, genitori e tre figli. Anch’essi non
avevano indosso alcun segno di malattia. I figli maschi avevano impeccabili
volti estranei, e presto come avviene fra estranei si professarono commensali
orgogliosi, amici. La figlia era bellissima, con la pelle bianchissima ma una
dolcezza strana negli occhi.
P. amava bere, per qualsiasi motivo, senza una ragione, e
quella domenica, in quel locale, mentre Marta si raccomandava di non “esagerare”,
egli bevve molto, in compagnia. L’euforia si tramutò presto in carattere cupo,
sospettoso, lunatico. Bastò poco, una parola di troppo, che altrimenti sarebbe
stata normalmente tollerata, e scoppiò la lite. P. si alzò ad un certo momento
dal suo tavolo e brandendo il coltello del pane, capitato lì non si sa
come, si avventò contro uno dei due
fratelli. Era solo, in quegli attimi, e si sentiva il più forte. Quei due
sobbalzarono dal tavolo, e fuggirono, e dietro di loro il padre. P. si mostrò
felice, per questo.
… Sopraggiunse la notte, d’improvviso: il tempo era volato,
come un fiore appassisce, e P. e il fratello erano tornati nelle loro case,
nell’abitato avvolto nel sonno. Marta l’avevano lasciata che si era appena
addormentata: doveva essere molto debole...
Trascorse non so quanto tempo prima che P. tornasse in
quell’albergo, e rimettesse piede nella stanza. La quale quel giorno gli parve
piccolissima, opprimente. Gli sembrava di respirare un’aria densa di carbone di
locomotiva, o di catrame. Appena entrato, sulla sua sinistra scorse, avvolte
nelle coperte, in un lettino singolo, due donne, l’una che teneva il suo
braccio destro attorno al collo dell’altra, in segno di conforto.
Fuori l’aria era plumbea. Dopo un po’ P. si accorse che
erano loro, madre e figlia, di quella famiglia,
di quella domenica, l’una e l’altra ora strette in un abbraccio, l’una
che consolava l’altra, silenziosamente. Il suo sguardo si soffermò sul volto
della più giovane, sul suo sorriso dolcissimo, sui suoi occhi cerulei, sul suo
volto, ora smagrito, che rendeva più luminosi gli occhi, e la guardò come se
guardasse il tempo che non torna.
Marta era nel suo lettino, con la camicia da notte color
crema, e ai piedi del letto era seduto il fratello di P., che lo guardava. P.
osservò Marta e riconobbe la madre; le parlò, come se nulla fosse, e lei
sorrideva e parlava; ma lui, dopo un attimo di distrazione, si accorse che lei
non rispondeva alle sue domande: rideva, parlava, e rideva. Il fratello,
notando la sua perplessità, disse a P.: «Ma come, non lo sai?, è uscita di senno,
saranno tre giorni...; lei non ti capisce, ma è te che pensa sempre, sola
com'è». P. abbassò gli occhi, guardò i piedi di Marta... le gambe smagrite e i
piedi lunghissimi, e non ebbe più nulla da dire.
Fuori era uscito il sole...
2.- Supplemento alla mia capacità di
viaggiare.
Ero su uno di quei treni tipo paesi slavi, come suol dirsi, o forse no...
insomma: è per farmi capire…
L’avevo preso al volo, correndogli per un po’ a fianco, per
salire; avevo dovuto scegliere la carrozza, avevo cercato lo sportello giusto
per saltar su, tanta era la gente che lo affollava.... carrozze popolarissime...
Poi avevo deciso, ne avevo aperto uno, ero salito
disperatamente facendomi spazio a forza tra i passeggeri, dei quali
intravvedevo le sagome grigiastre, per il colore dei pantaloni che indossavano e dei gilet, così mesti...
Mi ero accorto ben presto però di una cosa singolare, e con
grande sollievo: il treno non era giunto neanche alla stazione successiva, che
in séguito ad alcuni spostamenti dei passeggeri, esso si era quasi svuotato,
lasciando liberi dei posti a sedere...
Avevo notato con piacere che erano sedili dignitosi, non
orribili come me li ero immaginati; erano rivestiti con una stoffa grigia, sì,
ma sembravano posti di prima classe... Dunque avrei potuto sedermi e leggere il giornale e così feci.
Trascorsi così, comodamente, una ventina di minuti. Poi a un tratto mi alzai e cominciai a risalire il treno, vagone per vagone, come di
solito si fa, per cercare una carrozza fumatori oppure un amico, un volto conosciuto,
o per cercare posti; e dopo non molto mi accorsi che il mio slancio nel
risalire il treno si era affievolito: avevo cominciato ad andare avanti per inerzia...
Andavo scoprendo pian piano, come fosse una rivelazione, che
vi erano nelle vetture di quel treno come volti familiari, almeno alcuni, altri
erano simpatici, anche se non li avevo mai visti...
Giunsi quasi distrattamente a una vettura completamente
vuota; e di lì intravvidi l’interno di un’altra vettura, dove vi erano dei
giochi, un flipper, ecc.
Alcuni parlottavano familiarmente fra loro, in quella
vettura; vi entrai, e attaccai bottone con un giovane, sui trentacinque, che
indossava una giaccia in pelle marrone; mi ero addossato astrattamente a un
flipper, e ne guardavo il piano con indifferenza, quasi non fosse il piano di
un flipper. Una gioia, una lietezza inspiegabile mi stava invadendo l’animo, e allora
io feci per rivolgere la parola a quel giovane: ma ... «Giochiamo?», mi fece
lui, sorridente, precedendomi. Io mi ripresi da quel mio stato di assenza, come
di torpore e capii che quel tizio voleva farsi una partita, proprio con me.
«Non sa giocare?», mi fece, dopo un attimo di silenzio durante il quale non
aveva cessato di osservarmi con fare sorridente e simpatico. «No», risposi dopo
avere brevemente esitato... «Ho fatto altri giochi.. non è che non sarei in grado
di giocare al flipper... è che non me la sento»; ed era per me più importante,
in quel momento, dire che avevo giocato ad altri giochi che non giocare. Nessun
pensiero mi aggrediva, ... così sono io... Lui sorridente si avvicinò al
flipper e cominciò la sua partita.
… Non lo salutai nemmeno, mi allontanai, perché nel
frattempo avevo intravvisto un’altra vettura, o forse era la stessa nella quale
mi trovavo, della quale però scoprivo soltanto ora uno spazio, una dimensione
che doveva essermi sfuggita... Sembrava una di quelle carrozze deserte che di
solito sui nostri treni sono riservate al personale viaggiante... Il treno
correva a pieno regime...
In questo spazio nuovo vi era una serie di telefoni, sei,
otto, disposti sulle due pareti lunghe... Fu un altro particolare che mi diede
conforto, nella mia solitudine...
Passò uno, che forse riconobbi, e vista la mia evidente
curiosità incrociandomi mi fece: «Ci si può telefonare, ...ma sì, anche a
casa». Che strano!, pensai: telefoni-cabina, di quelli da muro delle stazioni,
che vanno a gettone, ma su un treno, e che funzionano, come se tutto fosse
normale...
Strumenti vecchi per servizi sofisticati: mai visti... Ma si
sa, la tecnica come si cala nelle società... Io non la capisco... Per quel
popolo così povero, poi... tutto andava benissimo... bastava accettare...
C’erano solo due persone in quel momento a telefonare, una
doveva aver finito perché stava facendo una torsione sul busto girando su sé
stessa come per andarsene, e io pensai subito a mia madre... mi avvicinai ad un
uno dei telefoni liberi..., poi mi fermai: «Già, ma dove le telefono?».
3.- L'Oceano.
Una terrazza sopra il mare, che io non guardavo come mare, e
guardavo invece il bimbo che correva in bicicletta: una terrazza di una Sicilia
della mia ultima infanzia ... senza che vi fosse, io pensavo, una ringhiera.
Ora accadeva, non so perché, che io una due volte per
l'esattezza mi avvicinassi al bordo di
quella terrazza, così, per curiosità, dopo avere guardato quella superficie
incresparsi cupamente qua e là, ... ed essermi detto e domandato: «Ma questo è
l'oceano...», pensando distrattamente al pericolo che correva il bimbo, che a
tutta velocità mi sfrecciava davanti con la sua bicicletta. E sperando che non
lo fosse sino in fondo, oceano.
E mi accadde che per due volte essendomi accostato al punto
più stretto della terrazza, nel momento stesso in cui mi dicevo perché non
avessero mai pensato l'idea più semplice, e cioè una ringhiera, fossi scivolato
lievemente, con lieve paura, rischiando forse di precipitare giù, nel vuoto, e
mi fossi altrettanto lievemente appigliato alle mattonelle, tirandomi su, come
un ragno.
E così mi accadde di pensare ancora al pericolo che correva
quel bimbo, con la sua innocenza. E di pensare che quello potesse essere
l'oceano.
Ora dopo
quasi un ventennio ho come un sobbalzo, sulla poltrona. È come fossi uscito da
un lungo torpore. Sobbalzo e mi dico: eccola, l’immagine, sembra proprio quella
terrazza; forse è il tetto di un edificio, e sotto si vede il mare …
4.- L'orso-orsa.
A
conclusione di quello che alla fine si sarebbe rivelato un desiderio di essere
riamati, reciproco, tra un me, sparso in un'epoca mista, e un orso, saggio,
intelligente, di colore marrone, esplose la tragedia: io su una piccola barca, nel
fossato pieno d'acqua di un castello, che imploravo; quello, su una grande
feritoia del castello, in piedi, che mi dominava e mi faceva sentire a disagio.
In quel
momento, all'improvviso, il desiderio balenò, fu chiaro, fu chiara allo stesso
tempo la mia disperazione, ed esplose la tragedia, la giusta punizione: partì
un colpo di pistola, da lui sparato, presumibilmente, o da qualcuno nascosto
che osservava la scena e doveva aver capito.
Il colpo
apparentemente andò diritto a penetrare nel mio petto, ma in realtà esso
rimbalzò due volte sulla mura del castello prima di centrare il mio petto
decretando la fine di una parte di me. (La strana traiettoria divenne visibile
dopo, come in rallenty ricostruttivo, con
tutto il distacco dell'osservazione di me nei confronti di me stesso,
della mia storia).
Memorabili
furono alla fine, al di là di tutto, le parole dell'orso, o dell'orsa che
fosse, saggio o saggia: «Noi lo porgiamo ad una donna e nasciamo doveri». Prima
di morire, quella parte di me stesso ebbe il diritto di sapere, di aver voluto
amare, senza confessarlo, incredulo, l'umanità.
Sesso, e
totalità di un giorno di aprile.
5.- Risvegli.
Il rumore, nel buio, di un volo di zanzara, fu per F. come
un preludio. Accese il lume del comodino e si levò in piedi ancora in preda al
sonno; erano da poco trascorse le due di notte; era di luglio e faceva caldo.
F. si diede ad esplorare ogni angolo della stanza, senza vedere alcuna zanzara.
Inforcò allora gli occhiali, ritentò....: nulla. Tornò a coricarsi, si tolse
gli occhiali, spense il lume e aspettò... Nulla.
Erano passati pochi minuti quando udì un rumore. Incuriosito
e sempre più in preda al sonno, fece per accendere nuovamente il lume, ma
quello non si accendeva. Forse era fulminato, pensò. Allora cercò con la punta
delle dita l’accendisigari che portava sempre con sé, e che prima di coricarsi
usava lasciare sul comodino; ma quello non si accese. Si alzò, ed andò a
tentoni verso l’interruttore del lampadario, fece per accendere... nulla. Anche
quello sembrava fulminato. Allora raggiunse la cucina, cercò la lampada da
campeggio che teneva lì, per consuetudine, e poi, per maggiore sicurezza,
frugando nei cassetti, prese una candela. Tornò nella stanza e fece per
accendere la lampada... nulla, neanche quella funzionava. Tentò di accendere la
candela con l’accendisigari, e la cosa funzionò ma la candela arse solo per un
attimo, una fiammella esile, prima di spegnersi, come se qualcuno vi avesse
soffiato sopra. Allora capì, e avvertì la presenza.
Era lucidissimo, ma prese a sudar freddo. «Non ci sono
dubbi, pensò, è Lui». Si rialzò, e si diede a percorrere come in pellegrinaggio
tutta la stanza, tremando e segnandosi incessantemente con la croce... Tutto il
suo robusto ateismo si era dissolto in un attimo. «Esistono situazioni che
disintegrano le verità più coriacee, più meditate», pensò fra sé...
Era notte fonda. Quando si ridestò aveva ancora tutta la sua
lucidità. Con spirito scientifico ritentò di accendere il lume del comodino...
si accendeva; provò ad accendere la lampada da campeggio... si accendeva; si
alzò e provò con l’interruttore del lampadario, e subito una luce potente
inondò la stanza...
6.- Frammento di una mia
passeggiata.
Iniziò tutto con grandi colonne bianche. Templi diruti che
io guardavo... che non tardai ad avere al mio fianco...
Camminavo, e scendevo, tenendo per mano come avviene
abitudinariamente il mio bambino, lungo il declivio di un’altura; che andava a
chiudere, in basso, come a tenaglia, lasciando intravvedere una insenatura marina,
di acque .... tranquille e apparentemente disabitate...
Mi avvicinavo a quelle acque con sensi di festa; e qui il
mio viaggio s’interrompe un po’; subentra il ricordo di un cadere, o di uno
scivolare senza fine, di un andare a fondo - forse nelle acque, non così innocenti...
E poi ricordo altra terra, senza vegetazione: un continuare
a camminare sulla terra... Il mio animo, dopo un tempo, breve o lungo non so,
era risollevato. Forse io e il piccolo, che se ne stava sempre in silenzio, avevamo
scampato un pericolo... Ma non eravamo spaventati. Entrammo a un certo punto in
una grande sala; che si presentò ai miei occhi ricordandomi la navata di una
basilica.
Era un’unica navata: forse le mie cognizioni in questo mi
confortavano?; il pavimento però aveva una particolarità che m’incuriosì molto:
era rosso e come gelatinoso.
Non capii finché non entrammo: io tenendo sempre per mano
quel piccino che era assai provato per il lungo camminare.
Distante da me vidi l’amico G., con la sua barba rossa, il
quale scalpicciava, come me che vi ero entrato, in un fondo di dieci centimetri
di profondità. Mentre provavo ancora a capire, lui, scalpicciando in quel fondo
rosso e gelatinoso, mentre era chino a cercare qualcosa, non disse alcun «Cerco
qualcosa», né alcun «Sai che cosa cerco?». Disse invece, come introducendosi
nella mia curiosità e proprio quando io mi accorsi di una regolarità di
disegni, come di mattonelle, sotto quella superficie gelatinosa: «Ogni
mattonella ce n’è una...».
In quel medesimo istante la mia curiosità mi aveva indotto a
credere, non so come, che quelle fossero tombe d’imperatori... E tutto in quel
momento mi sembrò evidente... Provai a rivolgergli la parola, ma lui non mi
udiva: a chi aveva parlato, allora, un attimo prima? Certo io avevo raccolto le sue parole come fossero
rivolte a me, e di fronte a questa verità cui ero giunto desistei dal
parlargli. Cercai anch’io, chino in quella singolare palude rossiccia e notai
che ogni mattonella recava una scritta, come un’epigrafe.
G. continuava a cercare con l’impegno un po’ goffo di un
sessantenne dall’animo rimasto fanciullo. Forse la madre, forse un’amica
scomparsa... Già: una donna, comunque…
Si avvicinava sempre di più a me... ora mi era vicinissimo
ed io sentivo che quella immagine sarebbe presto svanita. Oramai era un vecchio
fumo rossastro.
7.- Il ponte.
P. come al solito quel mattino non riusciva a capire. Anche
quella volta avrebbe dovuto toccare con mano, per capire; questo però non so a
che cosa sarebbe valso...
Seguitava a percorrere il ponte sul Fiume approssimandosi
alla fine, laddove aveva scorto un capannello di gente. Man mano che avanzava
il suo sguardo era sempre più attratto da quel gruppetto di persone, affaccendate
in non so quale attività. Fu colpito dall’anonimato di quella gente, remota
come può esserlo un fratello remoto; forse una squadra di operai; più probabile
che si trattasse di un gruppo di cittadini, immersi in un clima rarefatto ed
incomprensibile di complicità.
P. sentì a un tratto che due di essi dicevano, volgendosi a
lui con voce sostenuta, qualcosa come: «Attenzione!, si è rotto, sta
cedendo!» Si fermò a pochi passi di
distanza da loro. Aveva sentito chiaramente quelle parole ma non capiva, continuava a non capire: così
era la sua natura. ... Quando all’improvviso si sentì immerso fra quei corpi e
si accorse che il ponte aveva ceduto. Lui era lì sospeso, forse su un cavo metallico,
forse su una grossa corda; ed era che quel ponte non era fatto di cemento, come
aveva creduto, ma d’un tratto si rivelò fatto di ampie tavole di legno. Un
ponte antico forse... Era lì, sospeso su quel cavo, che era tutto ciò che
sorreggeva quel ponte e lo teneva unito all’altra sponda del fiume. Sotto aveva
il vuoto. Teneva le mani ben strette attorno a una fune che scorreva parallela
al cavo, e lo faceva con grande naturalezza, senza fatica. Mise molta
attenzione nel percorrere l’ultimo tratto del ponte, fece con calma. Gli operai
nel frattempo erano spariti, o forse era lui che non li considerava degni di
attenzione. «Mah! - fece - saranno tornati a casa, o saranno in qualche bar a
concludere la loro giornata...». Era come non fossero mai esistiti... Giunse
alla fine sull’altra sponda. Era in salvo, ma questa sua esperienza non lo
aveva minimamente scosso: tutto insomma era normale.
Quel giorno tutti i ponti sul Fiume probabilmente stavano
per cedere; ma P. non capiva perché questo potesse accadere: il fiume non era
in piena, quel giorno, e non lo era mai stato... Lui comunque non rischiava
nulla.
D’improvviso si ritrovò dentro una stanza, non molto ampia,
di una luminosità media, e sentì nuovamente accanto a sé la presenza di quel
gruppetto di operai. Ora non sembravano più così affaccendati; anzi non agivano
minimamente.
In mezzo a loro
scorse una donna, che lui conosceva bene; una donna superba, piena di sé. La
pelle bianca, i capelli rossicci, piuttosto magra. Aveva in mano un martello,
da carpentiere, era salita su una scala, e lavorava a riparare qualcosa con
quegli uomini intenti a seguire ogni suo gesto.
P. riconobbe l’amica, T., e notò immediatamente il suo volto
contrariato. Sotto il soffitto pendeva
proprio quel cavo metallico, del ponte, sul quale P. aveva camminato poco prima
per mettersi in salvo. Le si avvicinò, non le chiese nulla; sentì solamente che
lei diceva: «Ma guarda un po’ se io debbo riparare tutti i ponti». P. ne fu
piacevolmente incuriosito e si fermò a guardare, come fosse uno di quegli
operai. Sentì allora di non avere mai nutrito veri sentimenti di amicizia per
T. Continuò a guardarla, umiliata com’era da quel lavorare cui era costretta
dalla presenza forse di quegli operai, il lavoro umile, per cui lei non era tagliata. P. in fondo sentiva nascere nel cuore un
senso di compiacimento...
8.- L’esplosione.
Aveva amato sempre il suo bambino, di otto anni, un bel
bambino; molto più della sua autovettura, luminosissima e verde, che pure amava
tantissimo, e della quale spesso si era ripetuto: «Questa è come una compagna
fedele, che non mi chiede sesso e non mi giudica. So che posso fidarmi di lei».
Ma il suo bambino aveva qualcosa in più: si muoveva, lui,
padre amorevole, lo baciava teneramente sulle guance, gli stringeva la mano.
... Un giorno lo vide esplodere, come esplode una
polveriera. E scomparire, non essere, per sempre. Stava passeggiando con lui,
tenendolo per mano; poi a un tratto gli aveva detto: «Marco, aspetta che ...»,
senza continuare; si era allontanato per un attimo; stava tornando dal suo
piccolo, per riprendere a passeggiare, quando assistette impotente
all’esplosione.
La giornata era umida: per strada non passava nessuno, non
si udivano neanche i rumori delle auto; era il primo freddo invernale; già ma dove? Non
sapeva più che cosa pensare. Un’altra dimensione lo prese violentemente,
quell’altra dimensione che dev’esserci, comunque. Era convinto di averlo
immaginato, il fatto. «Noi tutti stiamo esplodendo da sempre», pensò. «Tutto
avviene come in una esplosione incessante».
Pensava alle stelle, al sole, alle vecchie nebulose,
all’origine e alle fiabe della scienza e alla dispersione di tutto. Ora era
convinto di averlo immaginato, quel piccolo... E proseguì la sua passeggiata.
9.- La terrazza.
La finestra dava su un complesso di case grigie.... Avevamo
una grande terrazza, mattonelle a non finire, non belle, una doppia vetrata,
umile, nulla di lussuoso, un grande occhio, su una fetta di cielo, più in là
una collina o che cosa...
Sulla sinistra ricordo che la sera, quando tramontava, si
accendeva ed andava accentuandosi nel
suo rossastro pallido la luce di una finestra di un’abitazione anch’essa
civile, della stessa natura della mia; e quella grande terrazza era
incredibilmente romana, di una Roma anni cinquanta, consolatoria per la mente...
La vetrata era quella della camera da letto, coniugale, non
molto spaziosa, aperta al passaggio dei figli, incredibilmente aperta... con
qualcosa di selvaggio dentro.
Più in qua, vicino al mio cuore, c’era come un fuoco, ed era
la cucina, dove spesso si cenava in modo chiassoso, con i ragazzi che andavano
e venivano, come frequentatori di uno snack-bar, con grande disinvoltura...
C’erano poi le camerette dei ragazzi, fortemente desiderate...
Quella sera avvennero le medesime cose: cenammo; mia moglie
era del suo solito biondo, lievemente sfiorita con gli anni ma la pelle
bianchissima, con le sue parole e i suoi silenzi costitutivi, come avevo imparato
a vedere col tempo.
Così era la normalità: A., il figlio più piccolo, che ogni
tanto correva da noi a prendere una fetta di formaggio, un bicchiere con
qualcosa da bere, un frutto, e poi si rintanava nella sua cameretta, e C., la
grande, che c’investiva con i suoi umori e la sua pubertà fastidiosa, fatta
d’intrighi e sospetti; per correre d’improvviso via lontana, ad ascoltare la
sua radio, canzoni e commercio canoro, a quintali ....
Quella era una serata come tante, o almeno così dicevano le
apparenze; ma notai nell’aria una sottile inquietudine. D’un tratto udimmo un
rumore, esterno; io andai a quella vetrata, della nostra camera da letto,
guardai fuori e vidi che tutto era normale: il cielo era terso e tramontava;
quella finestra, nostra compagna, era accesa e rossastra, come al solito, ed io
sentivo che quelle persiane di quella finestra non potevano essere chiuse...non
dipendeva dalla volontà umana...
C’era molta vitalità, in casa mia, come al solito, e le
ore trascorrevano...tornai dunque nella
cucina...tutto era normale, i ragazzi che vivevano immersi nella loro sera, ma
quella vitalità ora m’insospettiva, si protraeva troppo a lungo: anche questo -
pensavo - non dipendeva dalla volontà umana.
Provai improvvisamente a gridare qualcosa come «Ragazzi, per
favore, fate silenzio!», e ancora: «Guardate che si è fatto tardi; cosa si fa
questa sera, non si va a dormire?!». Era sopraggiunta la notte...
Ricordo che quell’ultima cosa l’avevo gridata quasi distrattamente
e senza credere a quello che stavo dicendo: in realtà tutto sembrava
trascorrere nella normalità....
Ma essi continuavano a celebrare la loro sera, come un
infinito, come se non avessero udito la mia voce, ed io mi sentii d’un tratto
come chiamato fuori, ad interpretare tutto quello che mi accadeva come paesaggio:
io ero il semplice spettatore...
Mi accorsi però che si era fatto tardi, prima non ero
affatto convinto.... era veramente notte, e la scena si protraeva: il mondo era
come fermo alla sera imprigionata in quella sera...
Cominciavo, non so perché, ad avere paura; mi levai dalla
sedia ed andai verso quella vetrata, come per un presentimento: la finestra
accesa era sempre lì, accesa.....
Il cielo non so perché conservava sempre un certo lieve
chiarore, dietro le colline.... gridai: «Ragazzi, voi giocate, ed è l’alba».
Guardai l’orologio che avevo al polso e lessi le quattro...
La terrazza era avvolta nella penombra, ma ad un tratto
notai due sagome, due ombre... guardai meglio: erano due piccole sagome, due
bambini, che venivano verso la vetrata dietro la quale mi trovavo; levai lo
sguardo verso quella finestra accesa e vidi che vi stava, affacciata, una
donna, e sentii che si raccomandava con quei due piccini dicendo loro di non
correre, di non fare chiasso, di non disturbare, ecc. Un rito si era improvvisamente
innestato in un altro.
Io, messo lì, non avevo sonno, mi volsi a guardare il letto
matrimoniale, integro, ma mi domandavo come avrei fatto ad affrontare il mondo,
senza avere chiuso occhio... Non mi sentivo affatto stanco, ma questo non bastava.
Rimproveravo in cuor mio i miei figli... E quei due mi erano
entrati in casa, senza che io avessi fatto nulla per impedirlo... E nessuno,
tranne me, si era accorto di nulla.
… Si era levato il sole, e quel giorno ne ero infastidito.
10.- L’infanzia e la ripetizione.
P. sentiva che stava cambiando. Era giorno ormai, e a lui era
consegnata la sensazione che il suo corpo s’immergesse in un sistema di
palazzi.
Gli sembravano - come dire? - giocattoli e armi, oppure
l’infanzia e la ripetizione, lui piccino che rifiutava con tutte le sue forze
il cibo o sentiva di avere attorno a sé animali abitudinari. ... Era la città.
Ma non era la città nella quale stava giungendo. In quel mentre s’interrogava.
L’aria si faceva domanda, e un treno: quello sul quale viaggiava, che era il
non suo, s’immergeva fra case-cose,
queste sì molto sue. P. sentiva che stava cambiando. Come stavano trasformandosi
le sue cose...-
Aveva dormito poco, in treno, quella notte. Era il tempo
delle bombe sui treni, e lui ne era terrorizzato. Salito sulla vettura, la sera
prima, pochi minuti prima della partenza, si era imbattuto nell’addetto, aveva
guadagnato il suo posto-letto, si era spogliato, aveva fumato una sigaretta e
si era coricato.
Era rimasto come a vegliare su di sé fino alle due; poi
sicuramente aveva preso sonno, ma doveva
essersi trattato di un sonno leggero: ogni tanto apriva gli occhi. Udiva rumore
di passi, in alcune stazioni; altre erano avvolte completamente nel silenzio.
Finché era rimasto sveglio non aveva saputo che cosa pensare. Il problema, evidentemente, era la sua
identità, e così giocava d’immaginazione: pensava alla città che lo avrebbe
accolto, ai volti delle persone che avrebbe incontrate...
Levatosi, alle sette, si era incamminato lungo il corridoio
della vettura, per rintracciare l’omino della sera prima, l’addetto, ed aveva
chiesto ed ottenuto un caffè. Poi era tornato sui suoi passi e si era messo a
fissare la campagna, mentre il treno faceva un gran correre deciso verso la sua destinazione: già, la decisione
in quella corsa non gli dispiaceva.
Guardava fuori. Vedeva case gialle, rade nella campagna, estranee,
ma quella campagna ed il rilievo di qualche collina gli apparivano stranamente
familiari. Popolazioni - pensava - immerse nella loro umanità, gente operosa
come la mia gente... Erano queste le cose che si offrivano alla prima luce del
sole. Ma l’idea di un popolo operoso non lo confortava affatto. Tutto gli sembrava fortemente mortale.
Finalmente la città. Il corpo immerso in un sistema di palazzi. L’infanzia e la ripetizione. Ma
quale città era mai quella? Il treno si fermò in una grande stazione bigia. S’era
d’inverno..
11.- La caduta dal ponte.
Il tonfo fu bestiale: quattro persone che percorrevano in
autovettura ad una velocità di oltre duecento chilometri orari un’autostrada,
piovuti giù da un ponte, nel fiume, con uno strapiombo di quasi cento metri.
Era una giornata bellissima, la luminosità del sole era come un dono imbarazzante.
Erano vissuti per lo più in un giardino, nel tepore di un
sole clemente, due genitori e la figlia e il ragazzo, che l’amava. C’erano alberi di
mandarini e limoni; si poteva correre, nei vialetti, per nascondersi,
immaginando chissà quali solitudini di bosco.
L’autovettura era lucente, e confortava come l’abbraccio di
una madre e S., quarantenne, l’amava: non ne aveva mai posseduta una così.. gli
aveva consentito di vivere decorosamente per almeno cinque anni...
Non so se fu una decisione di S..... non era possibile, ma
a un tratto sembrò tutto voluto, programmato... Il destino sembrò farsi da
parte.
I quattro stavano precipitando, ma la loro sofferenza non
andava al di là di una semplice malinconia. Pensavano solo a come trascorrere
quei secondi che li separavano dall’enorme tonfo nell’acqua.
S. disse ai due innamorati solo poche parole:
«Abbracciatevi, che stiamo per... e fra un po’ ci annulleremo». E quei due, forse senza capire, si strinsero fortemente
corpo a corpo, quasi obbedendo.
Due ragazzi del luogo erano già spettatori, e chissà cosa
avrebbero visto, accompagnando con lo sguardo - quasi questo fosse determinante
- quei quattro personaggi incredibili nella caduta.
... Allora fu profondissima e forte - lo ricordo - la percezione
del Tempo... Già: spazio e tempo...
12.- Il pigiama.
Entrammo in quello che presumo fosse il solito locale, visto
che non ricordo, in merito, di avere provate sensazioni particolari. Scegliemmo
il tavolo e ci sedemmo, G. ed io, doveva essere il nostro consueto sabato sera,
per bere qualcosa. Ordinammo...
Oramai stavamo conversando come al solito, come fanno tutti,
lui di fronte a me; io, serio, con il busto proteso in avanti, i gomiti sul
tavolo, fissando negli occhi G.; quando mi accorsi, d’improvviso, di essere
osservato, con curiosità, quasi con ironia.
Il lieve fastidio che provai a quel sentirmi come osservato
non m’impedì di continuare nella conversazione ancora per un po’; ma ad un
tratto alzai la testa e mi guardai attorno ed ebbi la conferma: vidi che tutti
mi stavano osservando seri, in silenzio. Cercai lì per lì di comprendere le
ragioni di tutta quella curiosità ... nulla. Ripresi a parlare con G.
… Poi mi venne istintivo guardarmi la spalla sinistra così,
come ci si guarda, e allora mi accorsi che avevo indosso il mio adorato
pigiama, caldo, chiaro, di lana, con lievi righe variopinte, abbondante, di
quelli che indossavano i nostri nonni, per intenderci, di quelli che da bambino
credevo rendessero somiglianti ai carcerati.
Fino a che punto, pensai fra me e me mentre guardavo G. e le
sorridevo, ci si può affezionare al proprio pigiama! Fino al punto da portarlo
con sé, come abito, nei propri sogni.
13.-Il canto del gallo.
Ci trovammo nell’umido freddo invernale, nei pressi della mia vecchia università. In un teatrale che riconoscevo; senza alcun sollievo per la mente ...
Non so perché proprio lì, nelle stradine circostanti
quell’università, di quella grande città; vicino ad un bar d’angolo, come ve ne
sono molti; dove andavo a mangiare i miei panini imbottiti da studente, a bere
la mia birra; e vicino al giornalaio dell’incrocio, la grande illustrazione,
che per me studente era sembrato detenere chissà quali tesori e tesoretti.
Erano i luoghi della mia antica giovanile religiosità. Molto umana..
La sera: doveva essere da poco scesa, perché io non avevo
memoria chiara di un tramonto, ma come qualcosa di ostinato nello stomaco, che
non mi abbandonava; ed era umido; il giornalaio era chiuso; le bancarelle dei
libri economici avevano chiuso, ed erano scheletri, che si sarebbero lasciati
volentieri avvolgere in silenziose nebbie di stagione...
Io non ero più studente, da tempo: questo era il mio sentire
fondamentale, e per i miei occhi le cose religiose erano tristi, poetiche, un
crepuscolo senza fine né volto. Spoglio dei suoi possibili idoli, come gli
alberi, messi a nudo dal cospirare delle stagioni...
Lei era piccola, davvero fanciulla; si era presentata
incredibilmente, improvvisa; con il suo zainetto di bambina, i suoi jeans, i
capelli trascurati, gli occhialetti... con un sorriso, sospeso, monacale. Non
sapevo che cosa dire, lì per lì ... pensare, a che cosa (?)..., per
giustificare quello che stava accadendo... Forse forse la ragione era nella
frattura di un tutto, così ben definito quanto lo possono essere spesso le cose
idiote, che tanto sorreggono l’umanità... Forse... quel suo avermi sempre
guardato con delicatezza innaturale, nella distanza degli anni: lei sedicenne o
poco più, liceale, ed io invece pressoché cinquantenne...
Mah!,... nulla poteva essere nato all’improvviso, e poi:
tutto è incredibilmente cognitivo, mi borbottavo mentalmente; e la guardavo
sorridere: un viso piccolo, due occhi spaziosi, minuta la bocca, piccola di
statura, sensibilissima che mi guardava, non bella, negli occhi come per tirarmi
a sé.
Iniziammo a parlare, camminando. E tutto fluiva
doverosamente: io che non ero lì, vicino l’università; Lei che non vi era
ancora giunta, secondo le presunzioni della mia ragione, a causa dell’età e
dell’ordine di studi. ...
Ricordo che parlavamo, e fummo subito nel cuore del dialogo;
come fosse un discorso ripreso e cioè da sempre iniziato...
Sapevo, mentre parlavo, quanto erudizione e senso in Lei
fossero confusi, intimamente, e forse era per questo che ci si poteva parlare,
con perfetta linearità e continuità...
Erudizione e sesso, pensai... Lei non se ne sarebbe mai
potuta liberare, era una piccola prigioniera... Non che fosse una folle, no,
solo: erudizione e sesso... forse stava sulla navicella dei folli, senza averne
grandi colpe.
Tutto questo spiegava quel nostro camminare e parlare...
Ricordo che non entrammo in quel bar d’angolo, così fiabesco
e infantile, una casina avvolta nel suo stato notturno; no: lo avevamo
rifiutato subito; ed invece del bar, divenne nostra meta un’officina di
meccanico; che a quell’ora - erano oramai superate le otto - era ancora aperta:
forse qualche lavoretto da ultimare ad ogni costo; forse il proprietario di
un’autovettura (che) sarebbe passato la sera stessa, per ritirarla, forse quel
proprietario ne aveva una urgenza drammatica...
Quel meccanico aveva davvero un problema, interpretativo, su
quel motore... pensai di capire...
L’officina constava di due vani, come spesso si confà a
un’officina meccanica.. cui si accedeva grazie a due saracinesche; ma riuniti
in uno. Fra i due vani, intercomunicanti, il passaggio era interrotto da un pilastro
in cemento.
Noi entravamo ed uscivamo da quell’officina; girando attorno
a quel pilastro, e parlavamo, io continuando a guardarla nel visino; Lei
continuando a dire cose razionali e femminili; con il meccanico che si
avvicinava ogni tanto, che andava dal pilastro all’autovettura problematica e
viceversa...
Entravamo e uscivamo dal meccanico:... entravamo e
uscivamo... giravamo attorno a quel pilastro, dialogando.
A un tratto Lei si fermò e disse: «tu credi di avere la
soluzione, o non?». E io capii immediatamente: soluzione stava per soluzione al
problema di quel meccanico, mentre era quasi la mezzanotte, e quell’uomo si
avvicinava ancora una volta, sempre noncurante di noi, come immesso in una
vertigine con altri personaggi; ma chiuso in una sua egoità, che aveva
rinunciato al tempo. Si avvicinava dunque, incrociandoci per l’ennesima
volta... incrociando almeno il nostro sguardo...
«Non so... forse...»; risposi; ma sentivo di non avere
risposte, che non fossero il solito parlare ipocrita...
Già: non avevo risposta, alle domande, a quelle di Lei, a
quelle del meccanico, che si allontanò tenendo fra le mani una busta in cellophane, trasparente e che lasciava trasparire qualcosa, una
polvere sembrava, di color bianco; il cui contenuto mi sembrava ovvio, ma che
in realtà ignoravo...
Forse che quella macchina era inguaribile?
Già: il mio essere (come) antico; la mia antica religiosità,
che però era valsa a tenermi giunto alle cose... Ero entrato troppo dentro le
cose? fino a perdere le mie narici ogni odore teleologico?
Mi accorgevo ora che non avevo mai perso la mia vera
condizione: di innamorarmi, parlando, e di credere, e, ancora, di non avere
comunque risposte. Nel frattempo il meccanico era svanito, neanche più negli
occhi la sua schiena azzurra; svanite le domande; ferma, impalata Lei, la
piccola, di fronte a me, a interrogarmi con gli occhi, attraverso gli occhialini...
... Mi destò lacerante il canto del gallo, una piccola
macchina, un dispositivo, nel quale forse potevo navigare, con il mio solo
credere ...
14.- Pallio
Questa notte mi è apparsa in sogno una parola, PALLIO: il contesto era un gruppo di persone (le rivedo ancora adesso) coappartenenti in qualche modo a questa parola; co-riferentisi ad essa, in un gioco enigmistico (non necessario alla sola enigmistica, ma entrante nella enigmistica della vita).
Si domandavano innanzitutto: che cosa significa pallione?
Io dissi: sarà un grande pallio.
Già, mi rispondevano con un sorrisino, ma che cosa significa
pallio?
Perché mi è venuta in sogno questa parola, fra milioni di
altre?
Parola che non frequento, che certo debbo avere sentita una,
due, forse 10 volte, ma sempre distrattamente?
15.- Bianco accecante
La strada, che percorrevo di solito e che credevo di conoscere, era scomparsa; ma io la percorrevo egualmente; di tanto in tanto c’erano lampi violentissimi di bianco, che ne illuminavano alcuni scorci, e per questo la riconoscevo; ma non per questo mi era familiare.
La percorrevo invece corazzato
dalla velocità di una potente autovettura, perché la conoscevo, o forse per la
ragione opposta.
A un tratto subentrò in me la coscienza, come spesso mi
accade, e allora iniziai a cercare un
colpevole di tutto questo: un tizio, una voce, mi disse che era così, che lui
non lo sapeva, ma che tutto era iniziato da quando aveva cominciato a vedere
una risma di fogli di un bianco brillantissimo latteo, accecante, innaturale.
E io guardavo quei fogli e continuavo nel mio percorso....
Al mio fianco di tanto in tanto ora avevo tetti rossi, di
tanto in tanto tracce di un declivio collinare...
16.- L’impossibilità di
ritornare
Mi trovavo a viaggiare su un treno, in compagnia di persone con cui parlavo di lavoro d'ufficio. Si facevano insomma le solite cose: per questo mi resi conto di dove mi trovavo. Poi d'improvviso quel treno si arrestò in una stazione, non ricordo quale ma ovviamente questo non aveva importanza...
So che pioveva ed era quasi notte... Io non comprendendo né il
perché di quella fermata né dove potessi trovarmi, feci per scendere dal treno
e alla fine sentendo che il tempo passava mi decisi a farlo, quasi il treno me lo chiedesse...
Non so se fosse città o cittadina; so che s'era fatto tardi e che
vedevo solo qualche via delimitata da muri di cinta di ville... Cercai allora
un mezzo pubblico, non so se per tornare a casa o se per tornare al treno o
semplicemente per fuggire... Ne passò uno e lo presi, con non molta convinzione
e non avendo nemmeno il biglietto; ma perché ne fui sorpreso.
Il mezzo percorse alcune strade e quando mi accorsi che si stava
allontanando dalla stazione ferroviaria e se ne andava in una periferia sconosciuta fui
preso dall'ansia; allora prenotai per la fermata e scesi. Ma dove mi aveva portato? Ora - rimuginai fra me e me - la storia si sarebbe ripetuta: ancora una volta avrei
dovuto studiare un mezzo, ricostruire un percorso, per tornare al mio punto di partenza...
chi ha interesse per qualche grammo o etto d'interiorità?
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