Il verso è insicuro, guardato a vista spesso
dall’angoscia, dal male di vivere, che preesiste al ritmabile, ai sì e ai non.
Se si dà liberazione nello scrivere versi (contabilità di
sé stessi) allora siamo quei bimbi che nel gioco con gli adulti, che si fingono
mostri, babau, non sanno - non si sa quanto per gioco cosciente - dove
nascondersi.
Dietro o dentro il verso v’è l’uso dello spazio; v’è il
tempo, che sfugge alle definizioni ma va speso; e soprattutto v’è la parola,
l’uso della parola … sassi, o pietre: quelli che si cercano quando si guada un
ruscello, in un bosco.
La parola va comunque amministrata, è come una risorsa, è
una economia, oìkos nòmos, laddove la
casa siamo soprattutto noi, che siamo ciò dove stiamo. Occupiamo lo spazio che
siamo. Ciascuno insomma che è Casa, costruzione
e destino, prima di essere interiorità contrapposta ad esteriorità.
Dopo anni sono andato a rivedere i miei versi, del tempo
nel quale disperatamente volevo scolpire; sentivo di doverli salvare per non
perdermi; e in questo una cosa ha catturato nuovamente le mie sensazioni:
l’origine. Le mie parole, più o meno cadenzate, le ho sorprese intente a
catturare l’origine, l’àpeiron dei
greci, il primo principio (ora acqua, ora aria, ora fuoco) il tema dell’arché. E ho visto due cose: che aria
acqua e fuoco sono quello che anche il pensiero ricerca, che l’intuizione anche
matematica e non solo letteraria sfiora costantemente. Ma che non è una unica
delineata cosa, e invece una vastissima cosa; ma comunque la Cosa, nulla di
alto e invece qualcosa che ci perseguita e ci costringe a sublimare.
Registrato il cuore nelle parole, le parole come oggetti
restano. Dopo anni si rivedono e cioè si riprendono e si cerca di ridare colore
e attualità a oggetti e statuette esangui, o già in parte confutate dai climi
del tempo.
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